I libri sull' Isola di Lampedusa

Sono Molti gli autori di libri più o meno interessanti scritti sulle isole pelagie o solo sull'isola di Lampedusa,noi ci sentiamo in dovere si segnalare uno dei testi più interessanti giunto alla seconda edizione “Le Isole del Sole” di Enzo Mancini U. Mursia Editore S.p.A. - Milano Da questo libro sono stati tratti i testi che seguono: Il Clima,La Natura,Miti e Leggende (Orlando Furioso,Andrea Anfossi e Atlantide),Il Santuario,La Storia i testi contenuti nelle sezioni indicate appartengono alla casa editrice "U. Muria Editore S.p.A." - Milano Altri editori interessanti sono Affinità Elettive che molto presto pubblicherà un libro interamente dedicato all'Isola di Lampedusa. * Scontro cavalleresco a Lipadusa L'Orlando Furioso poema di 46 canti in ottave, non è soltanto l'opera maggiore di Ludovico Ariosto (Reggio Emilia, 1474 - Ferrara, 1533) ma è anche uno dei maggiori capolavori della letteratura italiana, secondo soltanto alla Divina Commedia. In esso si raccontano la guerra tra i cristiani e i saraceni che hanno sbaragliato l'esercito di Carlo Magno e invaso la Francia; l'amore non corrisposto del paladino Orlando per la bella e capricciosa principessa Angelica, figlia del re del Catai; gli amori contrastati tra Bradamante (sorella del paladino Rinaldo) e Ruggero (capostipite degli Estensi). A nulla valsero le eroiche gesta di Orlando per conquistare il cuore di Angelica innamorata di Rinaldo. L'imperatore Carlo Magno, re cristiano, strumentalizza la rivalità amorosa dei due paladini e promette di dare Angelica in sposa a quello dei due che risulterà più valoroso nell'imminente battaglia contro i saraceni guidati da re Agramante. Anche Linosa e Lampedusa saranno scenario di una delle molte imprese di Orlando. I re saraceni Agramante e Sobrino, sconfitti a Biserta, navigano verso oriente ma sono costretti a rifugiarsi, su consiglio insistente dei nocchiero, "...in unisoletta» (Linosa), per sfuggire... a una procella sí grave che contrastar non le potrà la nave. / Se attendete, Signori, al mio consiglio qui da man manca ha un'isola vicina / a cui mi par che abbiamo a dar di piglio /fin che il furor de la marina" Per ugual motivo erano stati preceduti sull'isoletta da «... H gran guerriero che in Sericana ha regno». Era il terzo re saraceno, Gradasso, amico di Sobrino e di Agramante, venuto in Europa con grande esercito non per combattere i cristiani ma per conquistare il cavallo Baiardo appartenente a Rinaldo e la leggendaria Durlindana, la spada di Orlando. Perciò sì offre di combattere al fianco di Agramante e di Sobrino nel duello mortale contro i paladini Orlando, Brandimarte e Oliviero. Conosciute le avverse fortune degli amici « ... senza indugio un messo si ritrova il qual sì mandi agli africani lidi / e da lor parte il Conte Orlando sfidi. Che s'abbia a ritrovar con numer pari / di cavalieri armati in Lipadusa. Un'isoletta è questa che dal mare/medesmo che la cinge è circonfusa». (Canto XL, stanza 55). Il messaggero, portatore della sfida dei saraceni, a vela e a remi raggiunge Biserta (Tunisia) e qui trova Orlando intento a distribuire ai suoi guerrieri vincitori «... le spoglie e i captivi», cioè le prede e i prigionieri saraceni conseguiti alla vittoria. Orlando è cosí lieto della sfida ricevuta «... che d'ampli donì onorar fece il messo». E per compagni di lotta sceglie il fedele amico Brandimarte e il cognato Oliviero: tre cristiani contro tre saraceni, come proposto dagli sfidanti. Giunti a Lampedusa inizia il sanguinoso duello che l'Ariosto descrive, quasi colpo per colpo dato e ricevuto da ogni duellante, in ben 34 stanze del canto XLII. Il paladino cristiano Brandimarte e i due bellicosi saraceni Agramante e Gradasso rimangono uccisi, il paladino Oliviero e il saraceno Sobrino sono feriti, immune è il conte Orlando. Ma « de la vittoria poco raIlegrosse / Orlando; e troppo gli era acerbo e duro / veder che morto Brandima fosse / né del cognato [Oiviero molto esser sicuro / Sobrin, che vivea ancora, ritrovasse / ma poco chiaro avea con molto oscuro1 ché la sua vita per l'uscito sangue / era vicina a rimanere esangue». E conclude il canto XLII, stanza 19, con gli ultimi due versi: [Orlando] Fece dei morti armi e cavalli torre /del resto aservi lasciò disporre». Ma a questo punto insorge la disputa, curiosa e polemica, tra l'Ariosto e il capitano genovese Federico Fulgoso (o Fregoso) che nel porto di Biserta aveva sconfitto le navi del corsaro Cortogoli e, più tardi, si farà prete diventando vescovo e poi cardinale. L'Ariosto gli dedica, al canto XLII, le stanze 20-22. Federico Fulgoso rimprovera all'Ariosto di aver collocato il duello a Lampedusa dove non sarebbe stato possibile che ben sei cavalieri duellanti «... potesson far quella battaglia equestre» a causa della configurazione alpestre, cioè montagnosa, dell'isola, «... che non è [dice] in tutto il luogo strano / ove un sol pié si possa metter piano l'arresto controbatte l'errata obiezione «... che a quel tempo una piazza delle destre / che siano a questo, aveva lo scoglio al fondo, / ma poi, che un sasso che il tremoto aperse, / le cadde sopra e tutta la coperse». Ed è una strana replica Poiché da un lato dà ragione all'oppositore Fregoso, ma poi ci fa sapere (ed è pura fantasia del poeta) che la configurazione del terreno è diventata montuosa dopo lo scontro dei duellanti (e prima sarebbe stata... pianeggianti?) perché vi sarebbe caduto sopra un grande sasso rimosso dal terremoto e tutta la coprí! Trattasi, tuttavia, di eloquente esempio della forza inventiva della fantasia quando è al servizio della poesia; solleva e spiana le montagne, appiana le isole montuose, lancia al cielo quelle pianeggianti, purché siano rese possibili le gesta degli eroi cantati. Ma non soltanto la leggenda diventa storia vera. Di essa restano, imperituri, i nomi dei luoghi tratti dalle gesta, i nomi dei protagonisti e dei loro destrieri. Così a Lampedusa c'è tuttora la contrada «Cavallo Bianco,> (quello di Orlando che fu ucciso da Gradasso), «l'Orma di Orlando» (che invece è l'impronta di piede equino dunque del cavallo ucciso dal saraceno) e persino le «Quattro Torri dì Orlando-» delle quali, però, non si conosce l’origine della costruzione né se fu Orlando a erigerle (quando e perché?). Né può bastare, per accettare la verità storica degli eventi narrati dall'Ariosto, una presunta lettera di papa Leone 111 (morto santo nell'816 dopo avere incoronato imperatore Carlo Magno a Roma l'anno 800). In essa avrebbe informato l'imperatore di uno scontro avvenuto tra bizantini e saraceni. Ma Orlando non era francese?! Non importa. Anche la leggenda può, con il tempo, tramutarsi in storia se a raccontarla è un Ludovico Ariosto. D'altra parte, cosa cambierebbe se qualcuno si ostinasse a smentirla? Perciò, evviva Orlando e il suo leggendario «Cavallo Bianco» sepolto in Lampedusa sotto la mitica «orma» incisa nel duro sasso dell'isola pietrosa. * Aveva la vista oscurata per la debolezza prodotta dal sangue perduto. Andrea Anfossi, schiavo fuggiasco miracolato E’ del periodo piratesco saraceno del 1500 l'avventura tra storia e leggenda, capitata al marinaio cristiano Andrea Anfossi di Castellaro Ligure, in provincia di Imperia. E’ un paese dell'entroterra ligure di ponente, morbidamente accoccolato sulle falde di una collina a m 300 s.l.m., distante km 2 da Imperia, km 5,5 da Taggia e km 13 da Sanremo. Ne dette felice immagine da innamorata lo scrittore Giovanili Ruffini nel 134 romanzo Il dottor Antonio: «Sopra una cresta elevata sorgeva Castellaro inondato di raggi solari. il più gaio paesello del mondo. Si potrebbe immaginare che Castellaro senza la felicità dell'esistere e, nell'impeto della gioia, stia per precipitarsi in braccio alla valle...». Fu per Inconsapevole merito di Andrea Anfossi, contadino e marinaio, che si creò da allora e dura tuttora un ideale ponte di amicizia e di fede tra le due cittadelle collocate l'una nel cuore del Mare Ionio (Lampedusa) e I'altra sulle rive del Mar Ligure (Castellaro). A quel tempo (1561) la pirateria turca (o saracena) infestava pressoché indisturbata tutto il Mediterraneo. Ogni anno diventava più audace tanto da allontanarsi dalle sicure basi mediorientali e nordafricane per aggredire le coste del Mar Ligure depredando villaggi, paesi, cittadelle e persino le fortificate città dell'immediato retroterra collinare. «Avevano il loro famigerato ricetto (= ricettacolo, nascondiglio) nella baia di Olivula, ora Villafranca, e a Frassinello, ora Freyus, donde partivano per riversarsi poi su città e paesi del litorale. Baldanzosi ed insolenti, assalivano nottetempo le terre delle sponde liguri, le incendiavano, ne rubavano le ricchezze, ne menavano schiavi i miseri abitanti... I Comuni si univano in alleanza per difendersene ed erigevano nei punti più strategici i " castellari " (=castelli di protezione contro gli invasori. Filippo Anfossi, N.S. di Lampedusa, venerata in Castellaro, Alzani, Pinerolo, 1938). Si racconta che nella notte dei 6 agosto 1534 la cittadella di Sanremo assalita da dodici galere saracene ma gli assalitori furono respinti. Tornarono con maggior successo l'anno dopo e, depredata Sanremo, aggredirono Santo Stefano i cui abitanti fuggirono lasciando le case nelle mani dei predoni. Alcuni abitanti furono catturati e condotti schiavi sulle navi pirate. A Castellaro viveva un uomo «di costumi semplici e di fede ardente» (rif. c.s.) cui era stato dato il soprannome di Gagliardo per la statura robusta e il molto coraggio. Durante l'invasione piratesca della notte del 25 giugno 1561 fu catturata dai nemici mentre navigava lungo le coste alla loro caccia. Due iscrizioni una in latino all'esterno della chiesa di N.S. di Lampedusa e l'altra in Italiano all'interno (traduzione della prima) sono testimonianza della sua cattura: «Piraticam in turcas exercens...» e «Contro i Turchi corseggiando A giorno... ». Infatti le autorità civili e i privati cittadini volentieri si univano alle milizie cristiane e formavano piccole flottiglie delle loro imbarcazioni da pesca con il compito di vigilare e, se necessario, dare battaglia ai pirati difesa delle terre costiere e dei villaggi. Fu in uno di questi scontri che Andrea Anfossi, detto il «Gagliardo», cadde prigioniero. Sarà una prigionia da galeotto che durerà ben 40 anni, sopportata con rassegnazione, sostenuta dalla fede in Dio, senza che i maltrattamenti fisici siano riusciti a stroncare la forte fibra del corpo. Il pensiero costante era di tornare un giorno al suo podere denominato Casta ventosa. La nave pirata, navigando verso il mare meridionale, ebbe necessità di fare scalo alla piccola rada interna dell'isola di Lampedusa per approvvigionarsi di legname che era abbondante e di buona fibra in tutta l'isola. Andrea Anfossi, provvisto di una scure, fu mandato a terra per tagliare legna. Inoltratosi verso l'interno dove più fitta era la vegetazione, la sua mente escogitò di profittare dell'occasione favorevole per fuggire. Ma subito si scoraggiò, L'isola, disabitata, era piccola e in un solo giorno di rastrellamento poteva essere esplorata in ogni angolo. Essa distava tuttavia dalla terraferma tunisina, la più vicina, 100-125 miglia; e questa era comunque terra dei pirati. Dalla terraferma italiana più vicina (Porto Empedocle sulla costa meridionale di Sicilia) distava 110 miglia; troppe in ambedue i casi per essere percorse a nuoto o con una modesta imbarcazione. Non gli restò che chiedere aiuto e consiglio al Cielo. S'inginocchiò per pregare e poco dopo vide salire dalla boscaglia una luce intensa. S'avvicinò e in una cavità della roccia apparve, in una grande tela dipinta, la dolce immagine della Madonna che tiene in braccio il piccolo Gesù con le mani colme di rose. Accanto alla Madonna, sulla destra, in atto di reverenza e con il capo incoronato, sta l'immagine della vergine e martire Santa Caterina, nobile giovanetta di Alessandria d'Egitto, di rara bellezza e dotata di eccezionale ingegno. Di lei s'era invaghito l'imperatore Gaio Galerio Valerio Massimino Dàia, tristemente famoso per la ferocia delle persecuzioni contro i cristiani. Aveva preteso di indurre la giovane Caterina a rinunciare al culto cristiano, cui s'era dedicata con intenso amore, e di obbligarla a offrire barbari sacrifici a Giove. Non essendo riuscito nel perverso disegno condannò la bella e sapiente Caterina al martirio. Il corpo fu legato a una ruota munita di lunghi e crudeli uncini di ferro che ne avrebbero dilaniato le carni. Ma la ruota miracolosamente si frantumò in mille inutili pezzi prima di straziare la vittima. L'imperatore la condannò al taglio immediato della testa. Appena il carnefice ebbe reciso il capo con la spada, dalla ferita sgorgò abbondante latte a testimonianza della sua innocenza. Il corpo ancora caldo fu subito prelevato dagli angeli che lo trasportarono sul Monte Sinai dove fu sepolto. Sulla tomba fu eretto, più tardi, un grandioso monastero a memoria della vergine martire. Questo era accaduto nel primo decennio del sec. IV d.C. L'immagine apparsa al marinaio fuggiasco mostrava Santa Caterina che stringe con la mano destra la ruota con uncini. Ai lati di tutta l'apparizione due angeli seduti sulle nubi tenevano distesa la tela. Andrea Anfossi implorò a gran voce l'aiuto della Madonna e della vergine martire promettendo, in cambio, la donazione dei suo unico podere di Costaventosa, posseduto a Castellaro, affinché vi fosse costruito un tempio per la venerazione della Madre di Gesú e di Santa Caterina. Con tutto il vigore del suo corpo possente abbatté con foga un grande albero centenario, con l'accetta ne scavò il tronco trasformandolo in rudimentale robusto scafo, e lo trascinò fino a una spiaggia remota e solitaria. Ne fece il varo e prima di imbarcarsi per la fuga dall'isola tornò al luogo dell'apparizione per prendere con sé la tela dipinta da collocare nel futuro tempio di Castellaro. Quella tela aiutò la lunga e difficile navigazione dell'improvvisata imbarcazione. Il marinaio l'usò, tenendola alzata con le braccia, come vela per dirigerla verso il lontano nord quando il vento lo consentiva. Appena allontanatosi da Lampedusa fu inseguito dalle veloci galere dei pirati ma la rozza barchetta di Andrea Anfossi fu miracolosamente più veloce. Ogni tentativo di catturarla fu vanificato dalla forza dei vento-della-fede e i pirati dovettero rassegnarsi alla perdita del gagliardo schiavo ligure. Un giorno dell'anno 1602 il coraggioso fuggiasco approdava in una spiaggia deserta del suo Mar Ligure, probabilmente tra le odierne Arma di Taggia e Santo Stefano al Mare. Aveva percorso incolume non meno di 1.500 miglia su quel difficile mare che è sempre stato il Mediterraneo. Raggiunto il paese natío Andrea Anfossi raccontò con voce tremante ogni dettaglio della incredibile ma vera impresa e confermò l'impegno di donare tutto il terreno del suo podere di Costaventosa. Ma i concittadini lo ritennero inadatto per la costruzione della nuova chiesa e ne scelsero un altro meno scosceso, distante circa 500 metri e denominato Cappella per la presenza di una chiesetta di cui oggi restano pochi ruderi. Al termine dei lavori vi fu collocato il dipinto dell'apparizione nonostante le animate ma inutili proteste dell'Anfossi. Dopo pochi giorni il dipinto scomparve e fu ritrovato al centro del podere Costaventosa. La Madonna lo voleva nella proprietà di colui che aveva donato per il suo tempio l'unica ricchezza che possedeva in cambio dell'aiuto divino ricevuto. Era nei patti tra lo schiavo miracolato e la Regina del Cielo. Ma l'ostinazione dei castellaresi non si arrese. il dipinto fu ripreso e ricollocato nella chiesa costruita in località Cappella. Poiché Andrea Anfossi era stato sospettato del trasferimento clandestino, alcune guardie furono collocate a protezione del dipinto, giorno e notte. Ma l'indomani era sparito di nuovo e ritrovato ancora nel podere Costaventosa dell' Anfossi. Evidentemente la Madonna aveva confermato il suo disappunto per la violazione del patto stabilito con lo schiavo miracolato che aveva mantenuto fede alla promessa. Agli abitanti di Castellaro non rimase altra alternativa che rispettare il volere divino. Furono subito iniziati i lavori di migliorie e appianamento dei terreno di Costaventosa e là fu eretto il santuario, per ricordare la benevola protezione della Madre di Gesú e per ospitare il prezioso dipinto che ne fu il sacro strumento. Al santuario fu dato il nome, che ha tuttora, dì Nostra Signora di Lampedusa sulla cui porta è riprodotta, in antico affresco, la scena di Andrea Anfossi imbarcato sul piccolo naviglio che innalza il dipinto dell'apparizione per essere sospinto e guidato dal vento. Il prodigioso quadro, originale, è collocato al centro dell'abside centrale ed è portato in processione la domenica dopo l'8 settembre di ogni anno, festa della Natività della Madonna. Invano cerchereste a Lampedusa un solo isolano disposto a dubitare della verità della vicenda accaduta al "gagliardo" schiavo ligure sfuggito, dopo quarant'anni, alla prigionia dei pirati. * Pelagie, relitti della mitica Atlantide? Diodoro Siculo, vissuto tra il 90 e il 20 a.C., era uno storico greco che scrisse una quarantina di libri di storia universale. Uno dì questi, il Libro III, è dedicato alle amazzoni libiche per dimostrare che, oltre alle tradizionali amazzoni dell'Asia Minore (Mar Nero), in tempi più antichi vissero in Libia altre razze di donne guerriere, molto coraggiose e amanti della guerra. Dopo aver soggiogato le tribú libiche vicine, fondarono la città di Chersoneso (sic) sulle rive del lago Tritonis, era corrispondenti rispettivamente alla odierna città-oasi Kebili e al Chott (lago) el Jerid a circa 90 km nell'interno del golfo di Gabes in Tunisia. Da Chersoneso avevano invaso tutto il resto del mondo abitato scontrandosi con gli atlantidi di cui uccisero tutti gli uomini e fecero schiavi le donne e i fanciulli. La regina delle amazzoni libiche si chiamava Mirina. Il lago Tritonis scomparve invaso dalle acque marine a causa dì un terremoto che aveva distrutto le sponde prossime al mare. Mirina passò in Egitto, fece guerra agli arabi conquistò la Siria, la regione del Tauro e le isole dell'Egeo. Morì combattendo contro i Traci che, in seguito, sconfissero le amazzoni libiche e le ricacciarono da dove erano venute. Dal racconto di Diodoro Siculo sappiamo, cosí, che la guerra contro gli atlantidi non fu combattuta né vinta dagli ateniesi ma « dai loro antenati che abitavano in Africa», cioè dalle amazzoni libiche guidate dalla regina Mirina. Ma dov'era il regno di Atlantide abitato dagli atlantidi? Essendo Atlantide un'isola e, dunque, non potendo essere nell'interno della regione (Tunisia) com'era invece il lago Tritonis era comunque molto vicina alla costa (golfo di Gabes e Sirte) dove risiedevano le amazzoni libiche. E poiché le isole più vicine erano e sono le Pelagie e Pantelleria, non sembra arbitrario supporre che questo complesso insulare altro non sia che quanto è rimasto in superficie della mitica isola di Atlantide sprofondata a seguito di due cataclismi di cui parlano sia Diodoro Siculo sia, prima di lui, Matone (427-374 a.C.) in Crizia e in Timeo. Nei due racconti, infatti,si afferma che «...l’isola di Atlantide, a seguito di grandi terremoti e inondazioni,in un giorno e in una notte terribili scomparve inabissandosi nel mare». riportato al capitolo quando avvenne tutto ciò? Probabilmente (come è sull'Origine geologica), «... sul finire del Pliocene» poiché, secondo Trabucco (1890), si produssero in quell'epoca sprofondamenti nel Mediterraneo e intensa attività vulcanica con la scomparsa di Atlantide. Sarebbe accaduto in un anno (o più?) compreso tra 11 e 1 milione di anni fa, quindi poco prima della comparsa dell'uomo. Ma allora, gli atlantidi e quindi le nemiche amazzoni libiche appartenevano già alla specie umana oppure erano sconosciuti pre-ominidi? Oppure le genti atlantidi erano, secondo la mitologia greca, le discendenti delle sette Pleiadi (Alcione, Celeno, Elettra, Maia, Merope, Sterope, Taigete), figlie di Atlante, condannato da Zeus a sostenere il mondo sulle spalle, e di Pleione l'oceanina? In tal caso, gli scontri tra amazzoni libiche e le genti atlantidi sarebbero stati, come sembra giusto supporre, vere e proprie batailles de dames (battaglie di donne) per il predominio dell'eterno femminino? E cosi l'andar per isole non finirà mai di stupire il viandante del mare con i cento, mille interrogativi, tra miti e leggende, che tuttora sfuggono a risposte razionali.